
E’ il secondo giorno di queste Olimpiadi dell’era Covid. Cosi’ come per gli europei di calcio maschile il logo ci ricorda quel che e’ successo nell’ultimo anno e mezzo, sul nostro Pianeta, e che ha di fatto congelato tutti gli eventi in programma lo scorso anno.
Ma non e’ di Covid che voglio parlarvi. Di questo si e’ parlato e si continuerà a parlare per chissà quanto. Dio solo sa davvero ancora per quanto, al di la’ di quanto noi uomini (sempre più piccoli, quando la natura “decide” di ricordarcelo – poi, in effetti, decidiamo noi stessi, senza saperlo, coi nostri comportamenti miopi ed irresponsabili nei confronti dell’ambiente in cui viviamo ndr) ci auguriamo, dovremo averci a che fare.
Ad ogni modo, torniamo a Tokyo 2020.
Dicevo, e’ la seconda giornata di gare e già l’ondata di freschezza che tutti questi sport normalmente relegati nelle nicchie della considerazione mediatica, dopo cinque anni (normalmente quattro ndr) dall’ultima manifestazione olimpica, “fioriscono” nuovamente sotto gli occhi di tutti e portano agli onori della cronaca sportiva eroi che con le loro gesta e la loro gioia di esserci ci riportano a quell’aspetto genuino dello sport che ormai latita nella disciplina sportiva più seguita dai media e dalla gente.
Ovviamente mi riferisco al calcio.
E’ indicativo il fatto che proprio questo sport (…) alle Olimpiadi ricopra sempre un ruolo estremamente marginale. E’ quasi un “intruso”. E, in effetti, lo e’.
Lo e’ soprattutto perche’ (rifletteteci un attimo, prima di storcere il naso; soltanto un attimo ndr) e’ l’unica disciplina sportiva che riesce a tirare fuori la parte peggiore di chi lo segue. A memoria, non ricordo altro sport dove i connotati più negativi della società che viviamo vengano rappresentato cosi’ fedelmente come nel calcio.
E’ un po’ la riproposizione in chiave moderna della brillante intuizione, da parte degli antichi romani, del Panem et Circenses delle lotte tra i Gladiatori. Quel qualcosa che crei una “zona franca artificiale” dove poter sfogare gli istinti più vicini a quelli primordiali, senza per questo “incappare tra le maglie” dei regolamenti del vivere civile. Quindi, ritornando ai giorni nostri, i cori discriminatori (dei quali la nostra squadra del cuore e noi stessi siamo spesso oggetto, in giro per il Bel Paese ndr) che vengono declassati a semplici sfotto’. Cosicche’, nel “magico mondo del pallone”, anche l’augurare la morte della popolazione di un’intera città (non devo entrare nel dettaglio, vero? Sapete tutti a quale “divertentissimo coretto” mi riferisco ndr) diventa normalità…
Per tornare all’ambito dei cinque cerchi, vedere gli atleti competere e sapere che dietro i colori dei Paesi che rappresentano ci sono persone che studiano, lavorano e, spesso, non vivono dello sport nel quale gareggiano è, ripeto, una ventata di freschezza, di positività. E quand’anche ci siano alcuni che vivono di questo, gareggiando, nulla si avvicina allo star system del calcio (se non le eccezioni dei cestisti americani e dei tennisti – altra disciplina, il tennis, ai margini delle manifestazioni olimpiche).
Gli atleti che gareggiano alle Olimpiadi si allenano duramente e spesso soltanto in funzione di quell’evento. Tutto per quel momento, nel giorno in cui gareggiano, che può’ regalargli la gioia della vittoria o l’amarezza della sconfitta che li riporterà a casa, pronti nel loro cuore a riprendere la preparazione per il prossimo evento e col sogno di ritornare a gareggiare per la propria bandiera, tra quattro anni.
Gli atleti olimpici non hanno le suite degli alberghi ma soggiornano tutti insieme nel villaggio olimpico. E, ironia della sorte, i più spaesati, nello stesso, sono proprio le “stelle” del calcio (quando si degnano di partecipare, coi colori del proprio Paese di appartenenza ndr). Un mondo troppo distante dal loro, fatto di riflettori, macchine sportive e lusso sfrenato.
Lo so. Sembrano frasi ad effetto con un certo accento qualunquista qua e la’. E forse un poco lo saranno pure, in certi risvolti. Ma il fatto e’ che la super-esposizione mediatica (con programmi dai palinsesti basati sul nulla anche in periodi dell’anno nei quali un po’ di sana distanza dal pallone potrebbe soltanto fare bene – pur considerando il tanto strombazzato calciomercato, che tra l’altro quest’anno fa…piangere ndr), le cifre iperboliche che altri sport non immaginano neppure con la fantasia più sfrenata, le polemiche più stupide e tanti altri veleni che ormai girano quotidianamente intorno al pallone, francamente, a bocce ferme, danno sempre più l’impressione che questo sport sia sempre più show-business e sempre meno…sport.
Anche se stavolta gli spalti sono desolatamente vuoti a causa delle norme anti-Covid in vigore in Giappone, non ricordo Olimpiadi dove sugli spalti ci fosse la necessita’ di dividere i sostenitori delle varie Nazioni, con personale di sicurezza quando non addirittura con le forze dell’ordine. Nel calcio e’ la regola. Nelle manifestazioni internazionali cosi’ come nelle categorie più “infime” del calcio locale.
Insomma, ogni quattro anni le Olimpiadi ci dicono una cosa semplicissima ma fondamentale:
Si compete per la gloria di una medaglia pur senza dimenticare che le differenze dei colori delle bandiere dei Paesi che gli atleti rappresentano si arricchiscono dell’essere accomunati dallo stesso evento; nell’Olimpiade cosi’ come nel mondo che ci accoglie tutti insieme, come un’unica comunità di esseri umani.
Giulio Ceraldi