di Mario Artiaco
Diario del cammino (di Compostela)
Metti un giorno io, Joshua e Natan.

Erano quasi le tredici e mancavano tredici km al traguardo odierno, non sapevo fino a che ora si potesse pranzare all’ostello dove ero diretto e poi, nonostante mi fossi fermato spesso a bere, mangiare e a reintegrare con gel e sali minerali non bisogna mai disubbidire al corpo, anzi bisogna assecondarlo. E poi le nubi sono state quasi tutta la mattinata all’orizzonte e sembravano pronte a scaricare tonnellate di lacrime di cielo, infine non conoscevo dettagliatamente l’ultimo tratto del tragitto, tendenzialmente piano ma il tipo di suolo sul quale spingere sui pedali fa tutta la differenza del mondo.. e poi qualcosa sentivo mi invitava a fermarmi quindi faccio un paio di svolte allontanandomi dall’itinerario del navigatore e seguo le indicazioni per un bar, località San Nicolas Del Real Camino.
Ci sono pochi tavoli, tutti occupati, e a me dà fastidio chiedere se posso sedere accanto a un estraneo. Chiudo il lucchetto della bici, prendo lo zaino e mi dirigo dentro per ordinare qualcosa da mettere sotto i denti sperando all’uscita possa accomodarmi in solitudine. Nulla, anzi la situazione è peggiorata, sono giunti altri pellegrini. Quindi mi faccio coraggio e chiedo all’unico uomo seduto da solo se possiamo condividere il tavolo, subito mi fa spazio con gesti plateali, anche se non ce n’è bisogno. Mi accoglie e sposta le sue cose, ha già terminato di mangiare ma è chiaro avesse molta voglia di interagire.
“Me soy Joshua”
“Io sono Mario”
“Caminas solo?”
“Si, solo.”
Joshua è ampiamente rotto dentro, impossibile, indefinibile, è tarchiato ma quando si alzerà capirò davvero quanto. È più largo che alto. A Joshua tremano le mani e indossa un giubbotto di quelli fluorescenti che si tengono in auto in caso devi scendere per una emergenza.
Afferro dalle sue parole, poche ma perentorie, che anche lui procede solo e ha un trabiccolo che avevo notato appena giunto, accanto al quale ho parcheggiato il mio. Una bici tipo “Graziella” ma proprio il modello fine anni settanta, non la riedizione moderna, senza pedalata assistita e con dei pneumatici che non andavano bene nemmeno per il miglior asfalto, figuriamoci per i sentieri variegati che stiamo affrontando.
Mangio, lui osserva e tace ma capisco sia smanioso di parlare.
I tavoli sono pieni, viene a sedere accanto a noi Salvatore, siciliano, che parla bene lo spagnolo.
“Faccio anch’io il cammino da solo, lo faccio per Natan, mio figlio, lui mi ha chiesto tante volte di farne un pezzetto assieme ma ho lavorato io, sempre lavorato. In fabbrica.
Si alza con fare concitato e ci indica in linea d’aria dov’era la fabbrica, dove faceva l’operaio, centocinquanta km più in là e ribadisce ancora, come voglia giustificarsi:
“Ho sempre lavorato io.”
Prende il suo zaino da terra e con fare agitato tira fuori un portafogli che più sgangherato, scucito e sgualcito non si può, poche banconote dentro, dei documenti e un ricettacolo infinito di immagini di persone, credo, che lo hanno preceduto. La prima foto ci dice che è di Natan che aveva gli occhi del colore del mare, e che aggiungerei era bello come il sole.
Salvatore rallenta nella traduzione, cambia tono, l’aria si è fatta più malinconica di quanto non fosse già al solo guardare Joshua.
“È salito in cielo due anni fa, un incidente autostradale. Ha gli occhi della madre, era bello come lei.”
Scrolla le spalle mentre a me torna in mente il film “Il cammino”.
Fa fatica a riporre al proprio posto le immaginette, io e Salvatore nemmeno ci guardiamo negli occhi. È calato un silenzio spettrale mentre la vita attorno continua.
Ho chiesto a Dio il perché ma non mi ha risposto secondo i canali canonici che utilizziamo sulla terra, perché se è vero che queste cose non dovrebbero accadere a nessuno, a certi uomini, dovrebbero accadere ancora di meno.
Ma si sa comunque che, Dio, soprattutto per alcuni argomenti, si appella al quinto emendamento della costituzione americana, e questo è uno di quelli.
Joshua ci saluta, mette in spalla il suo bagaglio e inforca il suo improbabile mezzo di trasporto. Vorrei avere parole, difficilmente resto senza. Ho la lucidità di pensare che a breve mi muoverò anch’io e
lo ritroverò lungo il cammino, lascio stemperare, ne ho bisogno.
Passano pochi minuti, intanto faccio le mie cose e riparto alla volta della mia destinazione odierna. Mi rimetto sul sentiero e, dopo aver attraversato la statale, dopo pochi metri, c’è una pineta sulla destra, alcune panchine di legno, su di una di esse c’è seduto rannicchiato su sé stesso Joshua, ha il mento poggiato sui palmi delle mani, i gomiti sui quadricipiti,
lo sguardo perso nel vuoto, ripongo di nuovo la mia bici, con delicatezza vicino la sua, cerco di capire se vuole stare solo o ha piacere mi avvicini. Mi fa spazio di nuovo.
Mi chiede se sono padre, gli rispondo di si.
Dice io sia un buon padre e un buon figlio.
Vorrei dirglielo io che non sono stato un buon figlio e che non sono sempre un buon padre ma lascio cadere, che senso avrebbe contraddirlo, adesso vuole credere ciò, soprattutto vaglielo a spiegare in spagnolo.
Mi giro verso di lui, lui fa altrettanto, ci abbracciamo. Io mi contengo, lui molto meno e ovviamente quando due maschi è sinonimo di zero fazzolettini!
Negli ultimi anni ad ogni persona che ho conosciuto, e con la quale desideravo restare in contatto, ho chiesto se avesse un profilo sui social, con lui ho provato a chiedere del numero di telefonino e lui mi ha risposto:
“Non lo ho, nessuno deve chiamarmi.”
Siamo ai saluti, riprendo la mia bici e ci guardiamo ancora a lungo. Io piango, lui sorride. Il sorriso degli occhi.
“Buen camino peregrino.”
“Buena vida Joshua.”
Mario Artiaco