José Mourinho

Mentre l’Europa guarda altrove, a Lisbona va in scena una masterclass di comunicazione tra due vecchi nemici diventati saggi rivali. Tra provocazioni calcolate e realismo brutale, ecco come Benfica-Napoli è iniziata 24 ore prima in sala stampa.
Se il calcio fosse solo una questione di tattica, lavagne e xG (Expected Goals), le conferenze stampa sarebbero noiose formalità burocratiche. Fortunatamente per noi, esistono ancora José Mourinho e Antonio Conte. Alla vigilia di una sfida di Champions League che sa di ultima spiaggia per il Benfica e di prova di maturità per il Napoli, i due “dinosauri” della panchina — termine da intendersi nella sua accezione più nobile e maestosa — hanno trasformato la sala stampa dell’Estádio da Luz in un palcoscenico shakespeariano.
Non si tratta più, come accadeva un decennio fa tra Londra e Manchester, di insulti personali (“clown” contro “piccolo uomo”). Quella era l’epoca del rancore; questa è l’era della strategia pura. In un dicembre piovoso a Lisbona, abbiamo assistito a due modi diametralmente opposti, ma ugualmente geniali, di gestire la pressione: l’illusionismo di José e il realismo pedagogico di Antonio.

Atto I: L’illusionista e l’arte della distrazione

José Mourinho entra in sala stampa con un problema gigantesco: il suo Benfica è trentesimo nella classifica unica della Champions, una nobile decaduta che rischia l’umiliazione. La logica vorrebbe un allenatore preoccupato, magari umile. Ma Mourinho non segue la logica, la piega.
La sua strategia è stata un capolavoro di distrazione di massa. Sapendo che la sua difesa concede troppo (gli “errori individuali” che cita come un mantra), ha deciso di attaccare la narrazione avversaria. Quando gli è stato chiesto delle pesanti assenze del Napoli — una lista che farebbe tremare chiunque: De Bruyne, Lukaku, Lobotka — Mourinho ha sorriso. Un sorriso che era una trappola.
“Non fatemi ridere,” ha tuonato. “Dire che manca De Bruyne è lo stesso che dire che c’è McTominay. La panchina del Napoli è talmente forte che se guardi chi gioca, dimentichi chi manca.”
Tecnicamente, l’affermazione è un’eresia: Kevin De Bruyne e Scott McTominay praticano due sport diversi nello stesso campo. Ma comunicativamente è perfetta. Con una frase, Mourinho ha ottenuto tre risultati: ha tolto al Napoli l’alibi delle assenze (se perdono, non hanno scuse), ha caricato di pressione gli avversari definendoli una “squadra perfetta” e, soprattutto, ha spostato i riflettori dai problemi del Benfica alla “rosa milionaria” di Conte. È il vecchio trucco del prestigiatore: guarda la mano destra (il Napoli forte) mentre la sinistra (il Benfica in crisi) prepara il trucco.

Antonio Conte

Atto II: Il comandante e la pedagogia del dolore

Antonio Conte risponde. Non poteva non farlo. Se Mourinho gioca con la percezione, Conte lavora con la materia pesante della realtà. Il tecnico salentino, campione d’Italia ferito dalle assenze dei suoi leader, non ha accettato la narrazione del portoghese.
“Le assenze sono fatti oggettivi, non c’è da ridere,” ha ribattuto Conte, con quel tono grave che usa quando vuole difendere i suoi uomini. “A me viene da piangere, altro che ridere.”
Qui emerge la differenza filosofica. Conte non vuole nascondere la difficoltà; vuole esibirla. Per lui, la sofferenza è uno strumento pedagogico. Ha parlato di “responsabilizzazione” del gruppo, di come l’emergenza abbia costretto i nuovi acquisti e le seconde linee a crescere in fretta. Citando Hojlund come sostituto di Lukaku, Conte ha fatto un’operazione di protezione: ha ricordato a tutti che sta chiedendo a un giovane di sostituire un gigante.
Mentre Mourinho cercava di “normalizzare” il Napoli per mettergli pressione, Conte ha “drammatizzato” la situazione per compattare il gruppo. È la mentalità dell’assedio: noi pochi, noi felici ma pochi, contro il mondo che ride delle nostre ferite.

La tregua armata e l’oggetto del desiderio

Eppure, tra le righe di questo botta e risposta, si legge un rispetto enorme, quasi affettuoso. L’assistente di Conte, Lele Oriali, che con Mourinho ha scritto la storia all’Inter, ha fatto da ponte diplomatico, ma sono stati i due protagonisti a sancire la tregua. Mourinho ha definito Conte “uno dei migliori nella preparazione della partita”; Conte ha risposto ricordando che il curriculum del portoghese “parla da solo”.
Sanno di essere due sopravvissuti. In un calcio che va verso la fluidità posizionale estrema, loro rimangono i guardiani di un calcio fatto di “compattezza” (parola usata da Mou per lodare il Napoli) e di “correre in avanti per difendere” (la nuova dottrina di Conte).
Al centro di tutto, quasi ironicamente, c’è Scott McTominay. L’uomo lanciato da Mourinho allo United, ora trasformato in incursore totale da Conte. Lo scozzese è la sintesi di questo duello: per Mourinho è lo spauracchio che giustifica la forza del Napoli; per Conte è l’emblema della resilienza necessaria per sopravvivere senza De Bruyne.

Chi ha vinto nel prepartita?

Se le partite si decidessero ai microfoni, finirebbe in pareggio. Mourinho ha vinto la battaglia mediatica, dettando i titoli dei giornali e riuscendo, per un attimo, a far dimenticare che il suo Benfica ha solo tre punti. Conte ha vinto la battaglia interna, inviando un messaggio di orgoglio e protezione a uno spogliatoio che dovrà scendere in campo all’Estádio da Luz senza i suoi generali migliori.
Mercoledì sera, quando l’arbitro fischierà l’inizio, le parole sfumeranno. Rimarranno due squadre in due momenti storici opposti, guidate da due uomini che, con le loro parole, hanno già giocato la partita perfetta nelle loro teste. Resta solo da vedere se i piedi dei giocatori riusciranno a stare al passo con le lingue dei loro allenatori.

Giulio Ceraldi

Forza Napoli. Sempre.

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