Il logo della Coppa Italia

Siamo alla vigilia di Napoli-Cagliari. A Castel Volturno l’aria è densa, ma non di quella elettricità che precede le notti di gala. È un’aria pragmatica, calcolatrice. Antonio Conte prepara la sfida degli ottavi di Coppa Italia non come un assalto a un trofeo tricolore, ma come un complesso esercizio di ingegneria gestionale.
La realtà del calendario è brutale: il Napoli è atteso da un tour de force. Domani c’è il Cagliari in Coppa, domenica il big match scudetto contro la Juventus e, pochi giorni dopo, la trasferta di Champions League contro il Benfica a Lisbona. In questo imbuto di impegni, la Coppa Italia viene percepita e descritta con una parola che pesa come un macigno: “fastidio”.
In conferenza stampa si parla di un turnover massiccio, con “sette novità” pronte a scendere in campo dal primo minuto. Non è snobismo, è sopravvivenza. Ma perché una competizione che mette in palio un trofeo nazionale viene vissuta come l’anello debole della catena? La risposta non è negli uomini che scendono in campo, ma nel codice genetico stesso del torneo. Mettendo a confronto la nostra Coppa Italia con la leggendaria FA Cup inglese, emerge una verità scomoda: abbiamo ingegnerizzato la noia per proteggere i potenti.

L’ingresso in campo: Aristocrazia vs Democrazia

Il primo peccato originale della Coppa Italia è la sua struttura classista. Il Napoli, come le altre prime otto classificate della scorsa Serie A, entra in gioco solo ora, a dicembre, negli ottavi di finale. Per quattro mesi, da agosto a novembre, il torneo è stato un affare privato tra squadre minori, un preliminare sbrigativo giocato nel silenzio mediatico per scremare le “piccole” e apparecchiare la tavola per i grandi ospiti.
Immaginate se a Wimbledon i top player entrassero in tabellone direttamente ai quarti di finale. Sarebbe sportivamente inaccettabile. Eppure, è esattamente ciò che accade nel nostro calcio. Questo sistema di “protezione” garantisce che le Big arrivino fresche quando il gioco si fa duro.
Dall’altra parte della Manica, la FA Cup è il regno della democrazia brutale. Nel Terzo Turno di gennaio entrano tutti: il Manchester City e il Maidstone United. Non ci sono sconti. Se l’urna decide che il City deve andare a giocare su un campo di fango in periferia, Guardiola prende il pullman e ci va. E deve vincere sei partite per alzare la coppa, non quattro come Conte.

La FA Cup

Il “doping” del fattore campo

Se l’ingresso ritardato è un vantaggio, la regola del fattore campo è un vero e proprio doping strutturale. L’articolo 3.7 del regolamento della Coppa Italia stabilisce che, negli ottavi e nei quarti in gara secca, gioca in casa la squadra con il “numero di tabellone” più basso, ovvero la meglio classificata nella stagione precedente.
Ecco perché il Cagliari deve venire al “Maradona”. Non per sorte, non per un sorteggio, ma perché il regolamento premia chi è già più forte. Invece di aiutare la squadra più debole concedendole il vantaggio del pubblico amico (come accade in Coppa di Francia), o affidarsi al caso (come in Inghilterra), la Lega Serie A blinda il risultato. Le probabilità che il Cagliari espugni Napoli sono statisticamente irrisorie rispetto a quelle che avrebbe giocando alla Unipol Domus.

L’economia del “Robin Hood”: 45% vs Il Nulla

Ma il divario più imbarazzante è quello economico. E qui torniamo alla parola “fastidio”. Per una piccola squadra italiana, la Coppa è spesso un costo.
In Inghilterra vige la regola aurea del 45%. In ogni partita di FA Cup, l’incasso netto dei biglietti viene diviso quasi equamente: 45% alla squadra di casa, 45% agli ospiti. Questo significa che se una squadra di bassa classifica viene sorteggiata contro una Big, l’incasso di quella singola giornata può finanziare l’intero budget annuale. La coppa diventa un ascensore sociale.
In Italia, il regolamento prevede la divisione del “netto” al 50%. Sembra simile, ma il trucco è nei costi. Aprire il “Maradona” o “San Siro” per un ottavo infrasettimanale costa centinaia di migliaia di euro. Se lo stadio non si riempie, l’incasso copre a malapena le spese. Il “netto” da dividere è spesso irrisorio. Non c’è incentivo economico a passare il turno se non la gloria effimera.

Perché Conte fa turnover? È una scelta obbligata

Alla luce di questo, l’atteggiamento di Antonio Conte è perfettamente razionale. Con la Juventus alle porte e il Benfica all’orizzonte, rischiare i titolarissimi come in un mercoledì di Coppa sarebbe un azzardo manageriale (soprattutto considerando “l’infortunio facile” di quest’anno).
Il Napoli sa che le vere ricompense (economiche e di prestigio) arrivano dalla Champions League e dalla lotta Scudetto. La Coppa Italia, con il suo montepremi sbilanciato solo sulla vittoria finale , non vale il rischio di compromettere la stagione principale. Conte usa la partita per valutare le seconde linee, trasformando un ottavo di finale in un casting di lusso. È un paradosso unico al mondo: in una settimana di fuoco, la coppa nazionale diventa l’unico impegno “sacrificabile”.

Ridateci il sogno

Napoli-Cagliari si giocherà domani in un clima surreale. Da una parte un gigante che fa turnover per gestire le energie in vista di obiettivi più grandi, dall’altra una sfidante che sa di partire battuta dal regolamento prima ancora che dal campo.
Finché la Coppa Italia rimarrà un torneo ad inviti con percorsi facilitati per l’élite, continueremo a chiamarla “fastidio”, specialmente nelle stagioni, come questa 2025/26, in cui i calendari europei non lasciano respiro. Per trasformarla in “magia”, basterebbe poco: togliere le teste di serie, sorteggiare tutto e dividere i soldi per davvero. Basterebbe avere il coraggio di rendere il calcio un po’ meno prevedibile e un po’ più giusto.

Giulio Ceraldi

Forza Napoli. Sempre.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.