
Se si potesse scattare una fotografia dell’anima del calcio italiano in questo autunno del 2025, la si troverebbe probabilmente domenica sera, 30 novembre, fuori dai cancelli dello Stadio Olimpico. La partita di cartello della tredicesima giornata di Serie A vede la Roma, attuale capolista sotto la guida (domenica assente per squalifica) di Gian Piero Gasperini, affrontare i campioni in carica del Napoli di Antonio Conte.
Sulla carta, ci sono tutti gli ingredienti per lo spettacolo sportivo dell’anno: la prima contro la seconda (o terza, a pari merito col Milan), due tecnici vulcanici, stadi sempre pieni. Eppure, l’atmosfera che avvolge la Capitale non è quella dell’attesa febbrile, ma quella di una città blindata.
La Prefettura ha emesso la sentenza che ormai, tristemente, è diventata consuetudine: divieto di vendita dei biglietti ai residenti in Campania. Il settore ospiti resterà muto, o parzialmente riempito solo da tifosi residenti altrove, in una sorta di diaspora forzata.
Non è solo una misura di ordine pubblico; è la certificazione istituzionale che tra queste due tifoserie si è creato un vuoto pneumatico, una distanza siderale che nessun appello al fair play sembra poter colmare. Per capire perché il “Derby del Sole” si sia spento, lasciando il posto a quello che potremmo definire “Il Grande Freddo”, bisogna guardare oltre il campo, dentro una storia fatta di amicizie tradite e di dolori mai elaborati.

C’erano una volta i “Fratelli del Sud”
Per i più giovani, cresciuti nel clima di ostilità perenne degli ultimi quindici anni, può sembrare un racconto di fantascienza, ma c’è stato un tempo in cui Roma e Napoli non erano solo vicine geograficamente, erano sorelle.
Negli anni Ottanta, mentre il calcio italiano era dominato dalle potenze economiche del Nord, Roma e Napoli rappresentavano la riscossa di un’altra Italia. Erano gli anni di Falcao e Maradona, di Pruzzo e Careca. Le due curve, la Sud e la B, condividevano un gemellaggio che andava oltre il tifo: era un’alleanza identitaria.
Le partite all’Olimpico e al San Paolo erano feste di colori mescolati. Si scambiavano sciarpe, si cantavano cori comuni. Era un fronte unito contro i pregiudizi territoriali, una “Santa Alleanza” che sembrava indistruttibile perché fondata su un sentire comune.
La fine dell’innocenza: 1987-1990
Come in ogni grande storia d’amore finita male, ci sono date che segnano il passaggio dall’idillio al rancore. La prima crepa si aprì il 25 ottobre 1987. In un Roma-Napoli giocato sul filo dei nervi, il pareggio degli azzurri (in nove uomini) scatenò l’esultanza scomposta di Salvatore Bagni sotto la Curva Sud. Un gesto goliardico, forse, dettato dalla trance agonistica, ma che venne letto dai “gemelli” romanisti come una mancanza di rispetto intollerabile.
Ma fu l’estate delle “Notti Magiche” del 1990 a scavare il solco definitivo. Durante la finale dei Mondiali all’Olimpico tra Germania e Argentina, il pubblico romano scelse di schierarsi apertamente contro Maradona, fischiando l’inno argentino. Per Napoli, che con Diego aveva un rapporto simbiotico, quell’atto fu vissuto come un tradimento imperdonabile. Il gemellaggio si sciolse lì, lasciando spazio a una rivalità sportiva sempre più acida, condita da cori di discriminazione territoriale che iniziarono a farsi largo negli stadi.
Il punto di non ritorno: 3 Maggio 2014
Se fino al 2014 si poteva parlare di “forte rivalità”, il 3 maggio di quell’anno ha cambiato per sempre la natura dei rapporti, trasformando l’astio in qualcosa di molto più profondo e doloroso.
Quel giorno a Roma non si giocava un derby, ma la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. In Viale di Tor di Quinto, in un contesto lontano dallo stadio e dalle dinamiche di gara, si consumò un evento drammatico che portò alla morte del giovane tifoso napoletano Ciro Esposito.
Non ci soffermeremo sulla dinamica, ampiamente sviscerata dalle cronache giudiziarie che hanno portato alla condanna definitiva del responsabile, un ex ultrà romanista. Ciò che preme sottolineare qui è l’impatto devastante che la perdita di una giovane vita ha avuto sulla psicologia collettiva delle due piazze.
Per la comunità napoletana, la morte di Ciro non è stata un incidente, ma un’aggressione subita in un momento di festa. Il dolore, invece di unire il mondo del calcio in un cordoglio trasversale, divenne terreno di scontro.
La frattura divenne insanabile non tanto (o non solo) per l’evento in sé, quanto per la gestione della memoria nei mesi successivi. Quando la madre di Ciro, Antonella Leardi, iniziò a portare avanti un messaggio di non violenza, una parte della tifoseria giallorossa rispose con striscioni che criticavano l’esposizione mediatica del dolore.
È in questo passaggio che si rintraccia l’impossibilità della pace. Nel codice non scritto delle relazioni umane, prima ancora che di quelle da stadio, il rispetto per il lutto di una madre è sacro. L’aver infranto questo tabù ha generato un risentimento che va oltre lo sport: è diventata una questione di valori, di etica, creando un muro di incomunicabilità che dura ancora oggi.
La “Guerra Fredda” e i suoi focolai
Negli anni successivi, le autorità hanno scelto la via della separazione forzata. Divieti di trasferta, settori chiusi, percorsi alternativi. Si è cercato di evitare il contatto fisico, consapevoli che il contatto emotivo era ormai compromesso.
Tuttavia, il fuoco cova sotto la cenere, e quando le due tifoserie si sono incrociate casualmente lontano dagli stadi blindati, la tensione è esplosa nuovamente. È accaduto l’8 gennaio 2023 sull’autostrada A1, nei pressi di Badia al Pino. In un pomeriggio surreale, centinaia di tifosi si sono fronteggiati bloccando l’arteria principale del Paese.
Quell’episodio ha dimostrato che il tempo non ha lenito le ferite. La rivalità si è cristallizzata, trasformandosi in una sorta di “Guerra Fredda” permanente, pronta a riaccendersi alla prima scintilla.
Perché il 30 Novembre non sarà una festa
Arriviamo così a domenica prossima. La Roma di Gasperini (che seguirà la gara dalla tribuna) vola in classifica, il Napoli di Conte insegue a pochi punti. Sarebbe, in un mondo normale, lo spot perfetto per il calcio italiano. Invece, sarà una partita “mutilata”.
L’assenza dei tifosi ospiti non è solo un danno economico o cromatico per lo spettacolo; è la resa delle istituzioni di fronte a un problema sociale che non si riesce a risolvere.
Perché ricucire è quasi impossibile
La memoria del dolore: La ferita per la perdita di Ciro Esposito è ancora viva nel tessuto sociale napoletano. Non è un capitolo chiuso, ma una presenza costante che chiede rispetto e memoria.
Manca un gesto di riconciliazione: Da parte delle frange più estreme del tifo, non c’è mai stato un passo indietro rispetto alle offese alla memoria o alla famiglia della vittima. Senza un riconoscimento del dolore altrui, ogni ipotesi di stretta di mano appare vuota retorica.
L’identità per opposizione: Per le nuove generazioni di tifosi, nate dopo gli anni ’90, l’odio sportivo verso l’altra fazione è diventato un elemento costitutivo della propria identità di tifoso. Essere romanista vuol dire anche essere “anti-napoletano” e viceversa. Smontare questa narrazione richiede un lavoro culturale immenso, che va ben oltre un appello distensivo prima di una partita.
Domenica sera, mentre i ventidue in campo daranno spettacolo, sugli spalti aleggerà il fantasma di quello che eravamo e che non siamo più. Il Derby del Sole è tramontato, e la notte sembra ancora molto lunga.
Giulio Ceraldi
Forza Napoli. Sempre.
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