
C’è una memoria che non risiede nel cervello, ma nei muscoli. È quella che ti fa scattare in piedi se il lampadario oscilla, quella che ti toglie il fiato se senti un rombo sordo provenire dal sottosuolo.
Per chi vive in Irpinia e Basilicata, il 23 novembre 2025 non è solo una data sul calendario. È il riattivarsi di quella memoria fisica. Quest’anno, poi, la terra ha deciso di essere crudele: proprio a ridosso del 45° anniversario, uno sciame sismico tra Montefredane e Prata di Principato Ultra, unito ai tremori nei Campi Flegrei, ha spinto di nuovo la gente a dormire in auto.
La paura, improvvisamente, non è più un racconto dei nonni. È cronaca.
Quella domenica “normale”
Per capire perché un po’ di intonaco che cade oggi fa così paura, dobbiamo tornare a quella domenica sera di 45 anni fa. Faceva caldo, un caldo anomalo per novembre. L’Avellino aveva appena battuto l’Ascoli 4-2 e nei bar si discuteva di calcio. Nelle case, le famiglie erano a tavola.
Alle 19:34, il tempo si fermò. O meglio, accelerò violentemente. Novanta secondi di apocalisse. Un mostro di magnitudo 6.9 rase al suolo paesi interi: Conza, Teora, Sant’Angelo dei Lombardi.
A Balvano, in Basilicata, il destino fu ancora più spietato: il crollo della chiesa si portò via 77 vite, di cui 66 erano bambini e ragazzi che stavano cantando in chiesa.
Per chi c’era, il ricordo è fatto di polvere, buio e urla che si spegnevano lentamente.
“Fate Presto”
Il vero trauma, però, fu il dopo. Il silenzio dello Stato.
Per giorni, i sopravvissuti scavarono a mani nude. I soldati rimasero bloccati, i soccorsi non arrivavano. Ci volle la rabbia di un anziano Presidente, Sandro Pertini, per svegliare l’Italia. Il suo “non vi sono stati i soccorsi immediati” urlato in TV spazzò via l’ipocrisia.
Da quel fallimento nacque la consapevolezza. Se oggi, nel 2025, controlliamo l’App dell’INGV un secondo dopo la scossa sapendo esattamente dov’è l’epicentro, lo dobbiamo a quella lezione pagata col sangue. L’INGV oggi ci chiede di essere “Custodi di Memoria”, raccogliendo le nostre storie per trasformare la paura in cultura della prevenzione.
Le macerie invisibili
Eppure, 45 anni dopo, non tutto è stato ricostruito.
C’è un luogo a Potenza che si chiama Bucaletto. Doveva essere un campo provvisorio di prefabbricati. Oggi, nel 2025, è ancora lì. È diventato un quartiere, una “ferita che respira” fatta di amianto e lamiere sottili che gelano d’inverno e bruciano d’estate.
Chi vive lì si sente parte di una città a parte. “Io sono di Potenza, tu sei di Bucaletto?” è la frase che segna un confine invisibile. Le promesse di riqualificazione si sono accumulate come vecchi giornali, lasciando spazio a una rassegnata resilienza. Bucaletto è il monumento vivente a quanto può diventare “definitiva” la provvisorietà in Italia.
Ma c’è un’altra maceria, questa volta invisibile: il silenzio dei paesi vuoti.
I dati SVIMEZ presentati in questi giorni sono impietosi. La ricostruzione ha dato case nuove, ma non ha trattenuto le persone. I giovani se ne vanno, lasciando borghi bellissimi e deserti.
L’eredità
Cosa ci resta, dunque, di quel 23 novembre?
Ci resta un sistema di soccorso. Ci restano le mostre come “Terremoti d’Italia” ad Avellino, dove i ragazzi salgono sui simulatori per imparare a non morire.
Ma ci resta anche l’amara consapevolezza che la solidarietà nazionale – quella che nel 1980 portò migliaia di volontari dal Nord a spalare fango al Sud – è un bene prezioso e fragile, da difendere oggi più che mai nel dibattito sull’autonomia regionale.
La terra tremerà ancora, è la sua natura. La lezione del 1980 è che non possiamo fermare il terremoto, ma possiamo scegliere di non essere più vittime della nostra stessa disorganizzazione e dimenticanza. Il ricordo deve essere uno sprone. Per non dover mai più dire “fate presto”.
Giulio Ceraldi
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