Antonio Conte

Quando Antonio Conte è stato presentato nella sontuosa cornice di Palazzo Reale, non ha semplicemente accettato un nuovo incarico. Ha stipulato un patto con una città intera, distillandolo in due parole profetiche: “Amma’ faticà”.   Un’immersione immediata nel dialetto e nell’anima di Napoli, una promessa di sudore, serietà e cultura del lavoro. Ma al di là del mantra, l’avventura napoletana di Conte sta svelando un’altra sua abilità, forse meno celebrata ma altrettanto affinata: una magistrale capacità di controllare la narrazione.
L’analisi delle sue dichiarazioni, dai trionfi alle cadute, rivela un copione preciso, una dottrina comunicativa che risponde a una domanda fondamentale: quando le cose vanno male, di chi è la colpa? Per Antonio Conte, la risposta è chiara: quasi mai sua.

La vittoria è del sistema

La comunicazione di un allenatore si misura non solo nelle difficoltà, ma anche nella gestione del successo. La vittoria in Champions League contro lo Sporting Lisbona (2-1) è un caso da manuale. Ottenuta in piena “emergenza”, con una difesa quasi interamente assente rispetto a quella titolare, Conte non si è limitato a celebrare i tre punti.
Ha trasformato la vittoria in un’epica dimostrazione di forza del suo sistema. Ha rifiutato ogni “piagnisteo” per le assenze, presentando il successo come la prova che il suo metodo funziona a prescindere dagli interpreti. La vittoria non è stata frutto del talento, ma dello “spirito dell’anno scorso”, di una “prestazione da squadra”. In questo scenario, anche i nuovi acquisti sono stati elogiati come “risorse” preziose, perfettamente integrate. Il messaggio era potente: il mio sistema è così solido che vinco anche con le riserve. La vittoria è la logica conseguenza del mio lavoro.

Le prime crepe e la critica dei “bellini”

Se la vittoria è il monumento al suo metodo, la sconfitta è il laboratorio in cui si rivelano i suoi meccanismi di difesa. Le prime due battute d’arresto stagionali mostrano un’evoluzione netta.
Dopo la sconfitta per 2-1 con il Milan, Conte è controllato. La prestazione “è piaciuta”, la colpa dei gol è una disattenzione collettiva, “di squadra”. Il risultato viene normalizzato: “Arriva contro il Milan che non è l’ultima della classe”. La responsabilità è condivisa, il pronome dominante è “noi”.
Il tono cambia radicalmente dopo la sconfitta per 1-0 contro il Torino. Qui, Conte introduce un termine chiave, una critica nel suo vocabolario: definisce la squadra “bellini”. Non significa “belli da vedere”, ma “graziosi e inefficaci”, privi di cattiveria. La colpa si sposta dai meccanismi ai giocatori. Snocciola le statistiche sul dominio del possesso palla, ma evidenzia la mancanza di “concretezza” sotto porta. Il sistema ha funzionato, ma i giocatori hanno fallito nell’interpretarlo con la giusta mentalità.
In questa stessa conferenza emerge una contraddizione strategica. Afferma categorico: “delle assenze non parlo mai”. Pochi istanti dopo, però, giustifica la scelta di non rischiare l’infortunato Højlund. È una tattica precisa: si arroga una superiorità morale (“io non cerco scuse”), ma allo stesso tempo fornisce al pubblico proprio le scuse che afferma di disdegnare.

L’implosione di Eindhoven e la frusta del domatore

La disfatta per 6-2 contro il PSV è il capolavoro della sua architettura comunicativa. Di fronte a un’umiliazione inequivocabile, Conte sposta il focus dal campo alla struttura della rosa. Il mantra diventa: “Forse abbiamo preso troppi nuovi giocatori, nove teste da inserire non è facile”.
Presenta questa situazione non come una scelta condivisa, ma come una condizione subita: “noi siamo stati obbligati” a un mercato così massiccio. La colpa non è sua per non essere riuscito a creare un’alchimia, ma è una conseguenza delle decisioni estive del club. Per rafforzare il concetto, evoca il passato glorioso dello scudetto, vinto da un piccolo gruppo andato “oltre i propri limiti” e si auto-assolve trasformando la catastrofe nella conferma della sua lungimiranza: “ho detto da inizio anno che sarà un anno complesso”. Lui non si è sbagliato; aveva previsto tutto.
Quando un giornalista osa mettere in discussione il suo atteggiamento “rassegnato” in panchina, la reazione è feroce. Si rifugia nel sarcasmo per ridicolizzare la domanda e rifiutare ogni autocritica: “sarà stata sicuramente colpa mia… La prossima volta porterò frusta e sgabello come i domatori di tigri”.       È la chiusura totale a qualsiasi analisi che lo riguardi personalmente.

Il comandante non sbaglia mai

L’analisi è chiara. Antonio Conte non si mette in discussione pubblicamente. La sua comunicazione è uno strumento strategico per proteggere la sua figura e il suo metodo, che restano infallibili.
Se si vince è merito del suo sistema, dello spirito e del lavoro che ha inculcato.
Se si perde la colpa è sempre esterna: la mentalità dei giocatori (“bellini”), la loro mancanza di cattiveria, o problemi strutturali come un mercato che ha portato “troppi giocatori nuovi”.
Le contraddizioni sono tattiche, non errori. I nuovi acquisti sono risorse preziose dopo una vittoria e zavorre destabilizzanti dopo una sconfitta. L’assenza di autocritica è totale. Quando le cose non girano la responsabilità non è mai di una sua scelta, ma di un’imperfetta applicazione della sua dottrina da parte di altri. Il comandante, semplicemente, non può sbagliare.

Giulio Ceraldi

Forza Napoli. Sempre.

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