
Un fine settimana di calcio europeo, una fotografia impietosa. Mentre in Premier League, Bundesliga, La Liga e Ligue 1 si segnano valanghe di gol, la Serie A arranca con una media realizzativa quasi deprimente. È la “tristezza” che lamenta un tifoso, un sentimento diffuso che trova il suo epicentro nella squadra che, paradossalmente, domina il campionato: il Napoli di Antonio Conte. Campione d’Italia, primo in classifica , eppure al centro di un interrogativo: è giusto vincere senza entusiasmare?
La “tristezza” della Serie A: Un problema di numeri e mentalità
I numeri non mentono. La Serie A, anche in questa stagione, si conferma il campionato meno prolifico tra i top 5 europei, con una media gol a partita nettamente inferiore a quella di leghe come la Bundesliga, La Liga e la Premier League. Le cause sono profonde e radicate in una cultura tattica che storicamente privilegia la solidità difensiva e l’equilibrio a discapito del rischio. A questo si aggiunge un tempo di gioco effettivo spesso ridotto da interruzioni e perdite di tempo, con recuperi “timidi” quasi per evitare polemiche. Il risultato è un calcio più bloccato, dove un gol vale oro e la priorità diventa conservare il vantaggio minimo piuttosto che cercare lo spettacolo.
Il vangelo secondo Antonio: “Basta essere bellini”
In questo contesto, Antonio Conte è un profeta del pragmatismo. La sua filosofia è chiara: organizzazione maniacale, intensità fisica e transizioni verticali immediate. Il suo Napoli è una macchina da guerra costruita per vincere, non necessariamente per piacere. La sconfitta per 1-0 contro il Torino è l’emblema di questo credo: un dominio del possesso palla (69%) sterile e inefficace.
Le parole di Conte nel post-partita sono state una sentenza: “Nel primo tempo ci siamo messi le scarpe da ballerina, eravamo bellini ma non c’era cattiveria”. L’allenatore ha poi snocciolato il dato che spiega tutto: il Napoli è primo per possesso palla nell’ultimo terzo di campo, ma solo 14° per capacità di trasformarlo in gol. Per Conte, la bellezza non funzionale è un difetto da estirpare. Vuole soldati che eseguano un piano, non artisti che improvvisino. Ed è qui che nasce lo scontro con la percezione del tifoso, che vede in questa ricerca di concretezza una “latitanza di gioco”.
Una rosa da sogno per un calcio operaio
La critica diventa ancora più aspra se si guarda alla rosa a disposizione del tecnico. Il Napoli vanta la rosa più costosa del campionato per costi a bilancio e la terza per valore di mercato, stimato oltre i 503 milioni di euro. Un arsenale di talento puro con 17 nazionali in organico. Da De Bruyne a Højlund, da Neres a Lang, passando per McTominay, Gilmour e Buongiorno: giocatori di caratura internazionale che sembrano “sovraqualificati” per un calcio così schematico.
Il paradosso è evidente: talenti creativi come Neres e Lang, noti per la loro abilità nel dribbling, sono costretti a un enorme dispendio di energie in compiti difensivi, limitandone la lucidità in attacco. La domanda del tifoso, “Che rosa dovrebbe avere il Napoli per giocare un po’ meglio?”, è retorica. La risposta è: quella che ha già. Il problema non sembra essere di uomini, ma di come vengono utilizzati. È come possedere una Ferrari e usarla solo per andare a fare la spesa nel traffico.
Vincere è ancora l’unica cosa che conta?
Questo ci porta al cuore del dilemma. Nel calcio italiano, il motto “vincere è l’unica cosa che conta” è legge. Conte è l’incarnazione di questa mentalità: per lui, la classifica è l’unica verità e lo scudetto vinto è la validazione del suo metodo. Ma il tifoso moderno è cambiato. Non è più solo un sostenitore, ma anche un “consumatore” di intrattenimento. Paga per un’emozione, per uno spettacolo, non solo per il risultato.
L’apprezzamento per il gioco di altre squadre, anche se meno vincenti, dimostra che l’estetica sta diventando un valore. Lo scudetto ha saziato la fame di vittoria, ma ha anche alzato le aspettative. Ora i tifosi vogliono vedere la loro squadra giocare “da campioni”. La frustrazione nasce da questo divario: la piazza chiede un’evoluzione, l’allenatore risponde con la rigida aderenza alla sua formula di successo. La domanda, quindi, rimane aperta e riguarda non solo Napoli, ma tutto il calcio italiano: in un mondo che chiede sempre più spettacolo, siamo sicuri che vincere, da solo, basti ancora?
Giulio Ceraldi
Forza Napoli. Sempre.
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