Le parole sono pietre. Pesano. E a volte possono far male.

Molti dei toni che ho ascoltato e letto dopo la trasferta di Empoli mi hanno lasciato basito. O meglio, mi hanno rammentato i lati meno belli (o non belli affatto ndr) della nostra piazza.

Perché va bene il disappunto dopo l’ultima di una lunghissima serie di risultati deludenti. Ci sta. Ma il trascendere nell’offesa e (purtroppo) anche nell’incitamento alla violenza è qualcosa dal quale non soltanto mi dissocio ma condanno.

Mi dispiace ma non so cosa voglia dire pretendere l’impegno da una squadra presumendo che questo non ci sia stato. Ma seppure questo non ci fosse stato? Cosa si vorrebbe fare? Cosa?

Ho l’impressione che gli effetti della pandemia, quei due anni buttati che nessuno ci restituirà, quello sperare di uscirne migliori (come ripetevamo a noi stessi per dare un senso a quel tempo perduto) per poi scoprire di far parte di un mondo sempre più rabbioso in ogni sua manifestazione, anche la più banale, si siano (almeno in parte) riversati anche nel modo col quale approcciamo ai fatti del pallone. Come se fosse un qualcosa che davvero avesse un impatto fondamentale sulle nostre esistenze. E mi dispiace derubricare così la faccenda ma forse avremmo bisogno di crescere (finalmente) e renderci conto che sono ben altri i problemi per i quali dovremmo lottare, incazzarci, riflettere. Devo elencarli? Non credo.

E allora io non posso pensare che ci sia ancora qualcuno che addirittura invochi quella vergogna che fu l’allenamento a porte aperte all’indomani de “l’ammutinamento”. Qui bisogna darsi una calmata, e  in fretta. Altro che continuare a buttare benzina sul fuoco. Cosa vogliamo aspettare? Cosa? Che si trascenda?

Il libero arbitrio è quello che ci da la possibilità di scegliere. Nelle cose più importanti della nostra esistenza come in quelle che riguardano il nostro essere tifosi (che per molti è ragione di vita e lo rispetto). Nessuno obbliga nessuno a fare, andare, spendere e quant’altro. Ma nel momento nel quale si decide di andare, vedere, spendere non si può necessariamente pretendere l’appagamento, la soddisfazione. Lo sport è così. Si vince e si perde. Un po’ come la vita, in fondo. Ma l’avere scelto di sottoscrivere un abbonamento, pagare un biglietto, affrontare una trasferta, tutte queste cose non danno diritto ad altro che alla visione della partita per la quale si è pagato. Nient’altro. Sull’esito non c’è garanzia. Funziona così. Quindi certe reazioni verbali scomposte lasciano il tempo che trovano.

Perciò, viviamoci questo finale di stagione ognuno come meglio crede, ma smettiamola di attribuire al pallone valori salvifici, di riscatto o di rivalsa che non può avere. Sono altri gli ambiti dove si deve sperare, impegnandosi, in un mondo migliore. E tra quegli ambiti non sono previsti campi in erba dove ventidue atleti corrono dietro una palla. Quello è un gioco. Soltanto un gioco.

Giulio Ceraldi

Forza Napoli. Sempre.

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